[Quest’articolo su Beckham è recuperato dal vecchio blog, qualche giorno dopo l’uscita della serie]
Da 3-4 giorni il feed di Instagram mi proponeva insistentemente un clip (con musica da thriller in sottofondo) in cui Posh Spice seduta su un divano spiegava di aver rivelato a David Beckham di essere incinta prima di “quella” partita. La prima volta ho sorvolato, distratta dal video dei bassotti subito dopo, ma alla quarta apparizione del video ho iniziato a chiedermi quello che Netflix voleva che mi chiedessi: di quale partita sta parlando?
Così questo weekend ho sentito il viscerale bisogno di rifare un tuffo negli anni ’90 nell’epoca delle boyband, delle Spice Girls e di Sognando Beckham. La docuserie in questione è stata rilasciata in piattaforma streaming il 4 ottobre, con una promozione neanche troppo spinta. Del resto i Beckham non hanno bisogno di troppa pubblicità per far sapere le loro mosse: basta un post su Instagram, una foto sullo yacht a Capri o un’intervista di uno dei figli.
In Italia parliamo molto di Fedez e Chiara Ferragni, ma in UK e USA la presenza mediatica dell’ex calciatore del Manchester United e della sua famiglia è in grado di muovere le masse di pubblico come pochi. E questo documentario ci ricorda perché.
Il calcio, prima di tutto
David Beckham è stato e rimarrà sempre uno dei calciatori più meritevoli del Manchester United e dell’Inghilterra. Quand’ero più piccola seguivo il calcio (il giusto, per essere in Italia, direi) e i suoi goal su punizione me li ricordo benissimo. Così come i calci d’angolo.
Senza dimenticare quelle partite dopo il periodo buio (di questo, parleremo dopo) in cui cercava di tirarsi dietro una Nazionale stanca con una fascia da capitano che aveva un peso particolare. Nel primo episodio del documentario i genitori raccontano un David timido e innamorato del suo pallone, completamente dedito allo sport.
In certe parti dell’intervista al padre, in cui racconta del suo amore per il Manchester UTD o dell’aver dato Robert come secondo nome al figlio in onore a Bobby Charlton, si riecheggia tanto un’altra storia. Un’altra autobiografia sportiva, quella di un Andrè Agassi sottomesso al padre. Anche qui c’è un padre allenatore e severo, per esempio, ma nel destino di David c’è stato qualcun altro che ne ha decretato l’ascesa, il successo e anche poi l’allontanamento da Manchester. Parliamo di Sir Alex Ferguson, il primo a riconoscere in questo dodicenne un talento da coltivare.
Ancora troppo spesso di parla di David Beckham per la sua bellezza, le sue campagne pubblicitarie o i gossip ma il documentario, con spezzoni di video e interviste ai compagni di squadra, ci ricorda che grande calciatore fosse.
Victoria Beckham e tutto il resto
La scelta di Netflix di renderlo un documentario corale aiuta a evidenziare anche i due punti di vista principali della storia, ricordandoci che senza Victoria forse le cose sarebbero andate molto diversamente. Sempre accompagnata da tante polemiche in base alle prestazioni delle partite di David (cosa che nel tifo è ancora molto attuale, vedi la coppia Berrettini-Satta), la verità è che la Posh Spice ha avuto un ruolo fondamentale nella carriera del marito.
L’amore tra i due, raccontato con immagini dell’epoca, in un mondo in piena frenesia Spice Girls, è il motore di tutto quello che i Beckham rappresentano oggi. Ne esce un’immagine di due ragazzi giovani e anche un po’ schiacciati dalle attenzioni che il pubblico riservava loro. Proprio per questo, cresciuti insieme, spalleggiandosi a vicenda, tra parei da uomo, concerti al Madison Square Garden e accordi milionari con l’Adidas.
Posso dire che ciò che ho apprezzato molto del tone of voice di Victoria è la dose di umorismo molto british nel raccontare aneddoti come il coro che i tifosi le avevano riservato, nel periodo buio di Becks. E qui arriviamo al vero motivo per cui vale la pena guardare il documentario.
Come si esce da un periodo buio
Immaginate di avere 23 anni, essere il calciatore più giovane in una nazionale inglese in lotta per accedere alla finale della Coppa del Mondo: il sogno di una vita. La partita in questione è Inghilterra-Argentina dei mondiali di Francia ’98. Un’ora prima del calcio d’inizio, in pieno ritiro di concentrazione, la vostra fidanzata da Brooklyn vi fa sapere di essere incinta (se è andata proprio così lo sanno loro). Follia pura.
E così, in campo, provocato da Diego Simeone, Becks si lascia andare a un gesto di ripicca davanti all’arbitro: espulsione. Un errore fatale determinante per la sconfitta dell’Inghilterra e soprattutto per la sua carriera.
Inizia così il suo periodo buio: umiliato, fischiato ad ogni partita, aggredito in pubblico, come raccontano gli amici. Un evidente depressione che lo rendeva psicologicamente vulnerabile nelle partite e gli impediva di fare perfino quei colpi che hanno sempre caratterizzato il suo stile.
La vera domanda è: come si esce da un periodo buio quando senti il peso di aver deluso i tuoi tifosi e il tuo Paese per un colpo di testa? La risposta che il documentario sembra darci è duplice. Da un lato c’è la tenacia di non reagire e continuare invece a tener duro. Allenarsi e puntare alla ripresa, combattendo una difficile partita contro te stesso (o resilienza, come si dice oggi). E poi c’è il grande supporto dei compagni di squadra, avere la tua rete di fiducia su cui poter contare.
E quando poi, dopo mesi, ha riconvinto anche i suoi tifosi, è così che ha ripreso a vincere. Entrando nella leggenda, con la conquista della Tripletta (3 coppie ufficiali) con la maglia del Manchester United nel 99. Una fascia da capitano ai Mondiali successivi. Una lezione di calcio ma forse più di vita.