Ho appena chiuso una parentesi sabbatica lunga sei mesi in cui mi sono concessa il “lusso” di tre passioni lasciate per troppo tempo in standby:

  1. Scrivere – senza word count, senza brief, solo volontà di creare qualcosa di bello;
  2. Suonare – rispolverando synth, pedali e campionatori e soprattutto studiando cose che non sapevo;
  3. Imparare il Francese – tra corso, libri e spostamenti a Parigi, Lione e Strasburgo.

Sui primi 2 punti penso di aver fatto significativi progressi, sul terzo siamo ancora un bel work in progress ma non mollerò proprio adesso che ho imparato come avere un minimo di conversazione! 😝

Non è stato semplice prendersi questo periodo, soprattutto a livello economico, ma ne sono soddisfatta e ricaricata. Era da un po’ che ci pensavo, in particolare valutando concetti come quello di otium latino, il tempo in cui ci si sottraeva agli affari (negotium) per coltivare lo spirito attraverso lettura, studio, musica e conversazioni lente. Filosofi come Seneca lo consideravano indispensabile: terreno fertile da cui far nascere nuove idee e riportarle, più vive, nella vita pubblica.

Il mio sabbatico ha voluto essere proprio questo: un piccolo otium contemporaneo. Ho silenziato notifiche, lasciato respirare l’agenda e riempito le ore di carta, suoni e silenzi. 

In quel vuoto volontario le parole si sono fatte trovare da sole, anziché essere rincorse. Di tutto questo periodo però, il risultato più tangibile è Dopo le sette di sera, il mio primo libro pubblicato lo scorso gennaio da Controluna Edizioni


40 testi & Mexico City Blues

Dopo le sette di sera-0

“Dopo le sette di sera” non è una “raccolta di poesie” in senso classico, ma 40 frammenti in libertà nati tra taccuini, boarding pass e note vocali. Esplorazioni urbane che raccontano di viaggi, tram di notte, aeroporti poco prima dell’alba, insegne al neon ma anche flashback infantili, sogni ricorrenti, pensieri‑fiume“, tra email e timer.

Sono appunti che ho iniziato a registrare nel 2014 dopo aver divorato Mexico City Bluesdi Jack Kerouac. Pubblicato nel 1959, si può definire l’unico vero libro di versi che Kerouac curò personalmente.

Composto da 242 “chorus” – brevi improvvisazioni scritte in una stanza in affitto a Città del Messico nell’estate 1955 – il testo è pensato come una jam session bebop: niente metrica fissa, punteggiatura ridotta all’osso, respiro che detta il tempo. Kerouac lo definiva «blues scritto alla maniera in cui Charlie Parker suona il sax».

Mexico City Blues: 242 Choruses

E questo libro mi ha insegnato che si può scrivere come si suona: lasciar correre immagini, errori, ripetizioni, togliere il filtro della forma per far emergere il ritmo. 


Perché dopo le sette di sera?

La scrittura alla Beat Generation (paragone difficile eh) con i suoi ritmi irregolari, riff verbali, pause invece di punteggiatura è stata come uno spartito invisibile sin da quando, 10 anni fa ho iniziato a buttare parole sulle Moleskine. Senza chiedermi se fossi in grado di scrivere poesie o canzoni.

Ho selezionato 40 testi che sentivo che potessero risuonare anche negli altri, per temi ed emozioni suscitate. La parte più difficile è stata il titolo. Ma poi la soluzione è arrivata quando, nei giorni in cui avevo finito di preparare il manoscritto, ho incontrato una serie di persone che stressavano molto il punto di cosa fare dopo il lavoro. 

E rileggendo i testi mi sono accorta di come effettivamente anche io parlassi di questo: al giorno d’oggi le sette di sera sono quasi uno spartiacque. Perché è l’ora in cui il tram si svuota, il MacBook si spegne e il mondo si fa abbastanza silenzioso da ascoltare ciò che abbiamo dentro o così caotico da dimenticare. 


Poesia che si ascolta

Dal libro ho selezionato 5 brani che ho trasformato in suoni elettronici a cui abbinare anche dei video che potessero raccontare meglio quello che le parole esprimevano. Il progetto di sound design è già online su Soundcloud, così come il primo video su Youtube. Nelle prossime settimane usciranno gli altri.