Una chiacchierata con Alessandro Brunello su scelte, smart living e Mar Piccolo, ripresa dalla newsletter.
Il Sud oggi non è più (solo) un luogo da cui si parte. È un luogo in cui si torna. Ma anche un luogo in cui si può costruire una vita nuova. Tra tante storie che parlano di rientri ce n’è una bellissima che parla invece di chi il Sud l’ha scelto come propria casa.
Il primo libro che ho letto quest’anno è stato proprio “Cambio vita, vado al sud”, acquistato dopo aver sentito una presentazione dello scrittore Alessandro Brunello in occasione del Web Marketing Festival a Bologna. Impossibile non lasciarsi conquistare dalla sua energia e carica vitale.
Il sottotitolo, in maniera simpatica, è “Diventare terroni e vivere felici” e sintetizza bene la scelta di questo milanese doc che ha deciso di fare di Taranto la sua residenza.
Alessandro nel tuo testo racconti le motivazioni che ti hanno portato a scegliere Taranto come tua nuova casa. Una fuga verso la felicità. Raccontaci quello che più ti piace della tua vita oggi e cosa manca (perché manca sempre qualcosa) per renderla perfetta.
Taranto mi ha scelto prima che io scegliessi lei. Sembra una frase fatta, e forse lo è. Ma anche il sole che tramonta sul Mar Piccolo lo è, ogni giorno, eppure ti commuove lo stesso. Oggi la mia vita ha il ritmo delle onde e non delle notifiche, sa di caffè stretto e salmastro, profuma di pane caldo e chiacchiere al bar — quelle vere, non su Zoom.
Quello che mi piace? La lentezza, innanzitutto. Il tempo qui ha smesso di scappare e ha iniziato a camminare accanto a me. Ho imparato a rispettarlo, a offrirgli un caffè, a chiacchierare un po’ con lui prima che mi riporti al da farsi. E poi c’è la gente: teatrale, ospitale, litigiosa, saporita come una porzione di parmigiana fatta dalla zia. Ogni volto è una storia, ogni incontro un potenziale racconto da scrivere.
E cosa manca? Eh, qualcosa manca sempre, sennò non saremmo vivi. A volte mi manca un po’ di anonimato — quello milanese, freddo ma funzionale. Qui se cambi marca di detersivo, il salumiere ti chiede se va tutto bene in famiglia. Però poi pensi: forse è proprio questo che rende tutto più umano. Più vero.
Insomma, la perfezione non esiste. Ma questa scelta ci è andata vicino. Mi sono allontanato da quello che pensavo fosse il centro del mondo, e ho scoperto che il centro, in fondo, ce l’abbiamo dentro.
Molto spesso chi vive al Sud paga il prezzo di essere lontano dalle grandi metropoli dove succedono più cose. Cosa ne pensi tu di questo? Hai mai provato questa sensazione ed eventualmente cosa si potrebbe fare per risolvere questo problema?
È vero, al Sud succedono (apparentemente) meno cose. O meglio: succedono altrove. Le grandi fiere, le conferenze fighette, gli aperitivi con i nomi in inglese e le startup che promettono di rivoluzionare il mondo con un’app per contare le piume del pappagallino… tutto questo spesso si concentra a Milano, a Roma, nelle metropoli.
E allora sì, qualche volta ti prende quella FOMO mediterranea — la “paura di esserti perso qualcosa di importante mentre stavi affacciato a guardare il tramonto”. Ma poi ti accorgi che, mentre là fuori tutti corrono, qui si vive. E ti chiedi: “Ma succedono più cose… per chi? Per cosa? A che prezzo?”

Anche qui succedono cose. Solo che hanno altri nomi: si chiamano “incontro improvvisato”, “chiacchiera inaspettata”, “lunedì senza ansia da prestazione”, “controra”. Il valore del tempo, della pausa, del pensiero lungo: queste sono le vere rivoluzioni che spesso nelle metropoli nessuno ha più il coraggio di fare.
E per colmare il distanziamento con il mondo che corre? Beh, io una mezza idea ce l’ho. La tecnologia ci ha reso onnipresenti: possiamo essere nel cuore di Manhattan e al tempo stesso tra i trulli di Martina Franca con una connessione decente e una mente creativa. Ma oltre allo smart working serve lo “smart living”: portare contenuti, cultura, eventi e idee anche nei luoghi decentrati. Non tutto deve sempre accadere nei soliti tre quartieri a nord della circonvallazione.
Forse non è il Sud a essere lontano dalle cose. È il resto del mondo che si è dimenticato come si sta vicini a se stessi.
Chi se ne va dai posti di mare tende a sentirne molto la mancanza, soprattutto quando vive in città che non hanno neanche fiumi e laghi. Può essere la nostalgia dell’odore del mare o della sua influenza per chi ci vive vicino. Ti chiedo quindi, da neo-tarantino qual è quella cosa che più ti piace della tua nuova città e invece da milanese che cosa ti manca.
Sai, il mare non è solo un panorama. È una frequenza. Una specie di sottofondo emotivo che ti regola l’umore come un vecchio giradischi col vinile un po’ graffiato ma pieno di anima. A Taranto il mare non è mai solo “lì”. È ovunque. Si infila nelle finestre, si appoggia sui pensieri, ti entra nei polmoni anche se non lo vedi. È l’unico coinquilino che non ti chiede l’affitto, ma ti cambia la vita.
La cosa che più mi piace? Il tempo dilatato che ti regala il mare. La gente che si ferma, guarda, respira. Nessuno qui ha l’urgenza di dire “scusa, vado che ho una call”. A Taranto puoi ancora permetterti il lusso di contemplare. E sembra poco, ma in realtà è una rivoluzione silenziosa.
Da milanese cosa mi manca? Be’, Milano è come una di quelle ex fidanzate toste, con cui hai avuto una relazione intensa, tossica, piena di stimoli. Ogni tanto torna qualche immagine nella tua testa ma come scriveva Libero Bovio nel 1917
“T’aggio vuluto bene a te!
Tu mm’hê vuluto bene a me!
Mo nun ce amammo cchiù,
ma ê vvote tu,
distrattamente,
pienze a me!”
Insomma non mi manca il ritmo, il rimbombo delle rotaie, quella sensazione che tutto stia per succedere proprio lì. Quel “tutto” può anche sfiancare, drenare, togliere il fiato.
E allora respiri. Profondo. E risenti il mare. Oggi preferisco i gabbiani alle sirene dei locali. E ho scoperto che il blu ha molte più sfumature del grigio.
Il South Working va di moda oggi e ha senso iniziare a chiedersi come potrebbe evolvere. Come immagini la tua vita a Taranto tra 10 anni?
Tra dieci anni? Bella domanda. Potrei essere ancora a Taranto… oppure no. Potrei andare in un paesino dell’entroterra pugliese, o a pescare tonni in Papuasia. Chi lo sa. Non mi piace troppo l’idea di mettere il lucchetto sulle fondamenta, posso portare le mie radici un po’ dappertutto.
Il South Working oggi va di moda, è vero. Ma più che una moda, per me è stata una modalità praticata da decenni. Lo spostarsi a Sud invece è una muta. Come quella dei serpenti. A un certo punto la pelle che avevo addosso non andava più bene, stringeva. E allora via: cambio, scendo, rallento. Ma non per fare il figo o l’alternativo — solo per salvarmi. Le cose di moda di solito non mi piacciono istintivamente.
Fra dieci anni spero di non aver perso questa capacità di ascoltarmi. Di avere ancora l’orecchio teso verso la mia voce interiore più che verso i feed social. Magari sarò a Taranto, magari altrove, ma il punto non è dove sarò. Il punto è come sarò.
Il Sud, oggi, mi ha dato uno spazio per ripensarmi. Ma se tra dieci anni dovrò spostarmi, mi piacerebbe farlo con lo stesso spirito: non per fuggire da qualcosa, ma per avvicinarmi a qualcun altro — o, magari, a un me stesso nuovo che ancora non conosco.
E poi oh… il South Working di domani magari sarà solo “Working con un po’ più di buon senso”. E magari, per allora, ci saremo ricordati che il lavoro non è l’unica cosa che definisce chi siamo
La persona o il luogo più interessante che hai conosciuto da quando vivi a Taranto.
La persona più interessante che ho conosciuto da quando vivo a Taranto? Difficilissimo sceglierne una sola. Offenderei tutte le altre, e poi è come chiedere a un bambino che vive in una pasticceria quale dolce preferisce: ogni giorno uno diverso, ogni morso una sorpresa.
Allora se devo rispondere a questa domanda preferisco inventarmi un personaggio… chiamiamolo Cataldo, immaginiamolo pescivendolo del mercatino della discesa Vasto a Città Vecchia.
Cataldo è un uomo che sembra uscito da un film di Monicelli, con lo sguardo di chi ne ha viste più delle cozze che vende. Ogni mattina apre bottega come se stesse andando in scena al teatro greco. Ti racconta la storia della seppia come fosse un’epopea familiare, ti offre un assaggio crudo con la stessa solennità con cui si spezza il pane in chiesa. Al suo cospetto ti rendi conto che la cultura non è solo nei musei, ma scorre sotto il ghiaccio tritato di un banco del pesce.
Di luoghi speciali invece ne ho tre?
Il primo è la Lega Navale, una piattaforma sul mare che gode di un microclima unico. Per me una seconda casa visto che quasi quotidianamente esco di buon’ora per un giro in Kayak. La Lega di Taranto è una comunità variopinta attraversata da feroci scontri personali e melodrammi vari, che però visti dall’alto della sua scalinata sono uno spettacolo più comico che tragico.
A poche centinaia di metri, verso il Borgo umbertino c’è il Sonora. Il Sonora è il bar dei freak di Taranto, dei quali volente o nolente faccio parte. Il Sonora non è solo un locale, è un’astronave socioculturale inventata da Ciro che ne è artefice e prima vittima. Al Sonora la cultura underground si mette il vestito buono per ballare con l’autenticità. Puoi ascoltare un concerto indie sotto luci morbide e poi chiacchierare con l’artista mentre ti prepari un panzerotto al volo. Qui i tavoli non sono solo tavoli, ma punti di partenza per rivoluzioni personali. Il Sonora è un’appendice dell’anima di Taranto, quel lato che pulsa forte anche quando fuori c’è silenzio. Dentro il Sonora si mischiano giovani rientrati, musicisti di passaggio, localissimi filosofi da bar e creativi stropicciati. Il Sonora è un posto che ti abbraccia.
E poi c’è lui, il Mar Piccolo. Uno specchio d’acqua che sembra quieto ma ti dice la verità se lo ascolti. Ha la calma di un vecchio saggio e la rabbia di chi è stato tradito troppe volte. Ma resiste, come i tarantini. È un luogo che ti mette davanti a quello che sei, senza sconti né filtri. Lì ho capito che quando mi sono trasferito qui non stavo solo cambiando indirizzo, ma pelle.
E in fondo Taranto è così: una città che ti guarda dritto negli occhi e ti dice “qui puoi fermarti, o puoi ricominciare, ma non puoi fingere”.
Stai scrivendo un altro libro?
Sì, sto lavorando al prossimo libro. O meglio: sto cercando di capire quale storia scrivere. Perché in realtà ne ho tre in testa, tutti e tre insistenti come bambini che ti tirano la manica perché vogliono attenzione.
Uno è una storia tenera e un po’ surreale, il secondo ha dentro una vena noir che non so ancora se ho voglia di esplorare fino in fondo, e il terzo… be’, il terzo è quello che mi fa più paura. Quindi forse è proprio quello giusto. Il mio editore (Salani n.d.r.) sta aspettando notizie, devo ammettere che sono più lento del solito.
Quello che è certo è che sarà un romanzo, stavolta. Niente memoir, niente saggistica mascherata. Ho voglia di perdermi in una storia che non sia la mia, ma che magari parla anche un po’ di me — come tutte le storie scritte col cuore, alla fine.
È un processo strano: alcune scene già le vedo chiaramente, come se fossero sogni ricorrenti. Altre ancora sono nebbia. Ma succede sempre più spesso che i personaggi cominciano a parlare da soli, a muoversi senza chiederti il permesso. E lì capisci che non puoi più tirarti indietro.
Quindi sì, sto scrivendo. Lentamente, in sordina. Con la consapevolezza che sarà molto diverso da Cambio Vita, Vado al Sud. Meno autobiografico, più universale. Ma con la stessa voglia di dire qualcosa di spericolato.
Ringrazio Alessandro per la gentilezza e la bellezza con cui ha risposto a queste domande (facendomi venir voglia di prendere un aereo e passare un pomeriggio al mare quanto prima). E consiglio la lettura di “Cambio vita e vado al sud” a tutti quei dispersi in cerca di una rotta nuova.